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Femmine Difformi project

Il mio nome è Nahal

di Tiziana Moggi


Il mio nome è Nahal.

Vivo in un piccolo villaggio sperduto nella campagna molto, molto lontano da Kabul.


Nahal, Nahaall…!

Scusate, ma mi diverte e sorprende sentire l’eco del mio nome quando sono sola.

Mi sorprende sì, perché da sempre io sono senza nome, senza identità.

“La mia gallina, la mia pecora, la mia capra”, così da sempre mi chiama mio marito.

No, non perché lui sia il peggiore fra gli uomini, ma perché è disonorevole, non degno di un maschio pronunciare il nome di una donna, guardarla negli occhi, darle una qualche considerazione.

Se vado dal medico io non sono la signora Nahal, né semplicemente Nahal.

Sono la moglie di, la figlia di.

E cosa pensate che nel giorno del mio matrimonio si sia sentito annunciare: “Ed ecco a voi la sposa Nahal!”


No, ero solo una cosa, un oggetto che passava dalle mani di mio padre a quelle di mio marito.

E così da essere la figlia di, diventavo la moglie di.



E nel giorno della mia morte, al mio funerale la storia si ripeterà, sarò stata la figlia di e la moglie di.



E’ vero, un cambiamento c’era stato, così rapido però che quasi dimenticavo.

Nel 2020, più o meno in primavera, sarà stato marzo ma non ricordo bene, era giunta la notizia, da noi in campagna in ritardo, che, dopo molte lotte e battaglie, noi madri potevamo apporre la nostra firma sul documento di identità dei nostri figli.


Vi sembra una piccola cosa?

Per noi era strabiliante, incredibile.


Potevamo iniziare ad avere un ruolo, un’identità, ad essere qualcosa, no scusate, qualcuno (la forza dell’abitudine)!

Potevo essere io, Nahal, la madre di.


Era una scintilla che prometteva di diventare un fuoco, la speranza iniziava a correre, correre veloce sulle ruote e sui pedali delle nostre cicliste.

Donne impavide, forti, testa alta, in corsa per raggiungere il traguardo, no, non quello di quella competizione, bensì il Traguardo di affermare al mondo, ma soprattutto a noi stesse che c’eravamo, che eravamo in corsa per affermare la

nostra identità.

Ma la possibilità sfrecciava anche più veloce grazie agli skateboard delle nostre bambine.

Con i nostri costumi tradizionali e il caschetto sfrecciavano felici, divertite, spensierate, inconsce di quanto rivoluzionario fosse il loro andare, ma vederle libere di ridere e divertirsi apriva il cuore.


Ed è stato allora che ho detto: “Nahal, devi fare qualcosa, il fuoco deve essere alimentato”.

E così mi è venuta l’idea di raccogliere questi fogli e distribuirli fra le donne del villaggio e poi ancora nel villaggio vicino e poi con il passaparola anche in quelli più lontani, fino a raggiungere ogni angolo del paese.


Una pagina bianca su cui tracciare un segno, una parola, un sussurro, un grido per raccontare di noi, per riscrivere la nostra storia, chi eravamo state, chi eravamo, ma soprattutto chi avremmo voluto diventare.


Sì, lo so sto usando il tempo passato e lo adopero in modo istintivo.

Un grande gelo e freddo ha spento quei bagliori di fiducia in un futuro prossimo.

Il buio, la ricaduta in un buco nero e vertiginoso.

Quello che è successo mi ha raggelato.

No, non potete capire… non poter ascoltare o fare musica e ballare a piedi nudi nell’aia polverosa o nella tua cucina, ridere con le tue amiche per strada, non poter dare un’istruzione a tua figlia…

Allora ho provato un grande dolore, ma soprattutto una grande, fortissima rabbia, incontenibile.

Basta! Basta! Nessuna speranza! Basta sognare!

Come una pazza ho raccolto tutte le pagine distribuite, accartocciate, strappate, ne ho fatto un cumulo e ho acceso un fiammifero! Che tutto bruci!

Ma quando stavo per appiccare il fuoco, ho ascoltato la voce flebile del cuore.


Nahal, ascolta il tuo cuore.

Credi, c’è sempre una possibilità!

Con fatica ho raccolto i fogli rimasti.

Gualciti, ho tolto la polvere, ho cercato di stirarne le pieghe con le mani e li ho consegnati a voi.

Scrivete voi quel sussurro, quel grido, quella parola che noi non possiamo proferire.

Siate la nostra testimonianza del nostro esistere, adesso che noi non possiamo farlo.

Date voce alle nostre voci mutilate.

foto di Silva Masini

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